Post-pandemia: inizia l’era “verde”?

Dopo la pausa estiva esce finalmente il nono numero del magazine di SmartGreen Post dedicato alla transizione socio-culturale ecologista come motore trainante della ripresa post-pandemia e della transizione ambientale. Occorre smuovere le coscienze dei singoli per creare una coscienza collettiva “verde”. Com’è possibile farlo? Con il supporto necessario e indispensabile della letteratura, del cinema, della musica e dell’arte.

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© Andrea Piacquadio on Pexels

Siamo ormai – si spera – usciti dalla fase emergenziale della pandemia COVID-19 ed è cominciata quella che oserei definire una nuova “era”, quella della rivoluzione socio-culturale “verde”. Tutti i grandi avvenimenti nella storia dell’umanità provocano inevitabilmente dei cambiamenti nella società: si può forse guardare al post-pandemia come l’inizio di una nuova era culturale? Un’era culturale “verde”?
 
La pandemia ha cambiato con una celerità impensabile gli scenari geo-politici-economici di tutto il pianeta. In una fase di emergenza assoluta, le parole “urgenza” ed “intervento” sono state quelle più utilizzate. Per questo motivo l’Italia riceverà circa 209 miliardi di euro dal Recovery Fund, la quota maggiore tra i Paesi membri in quanto primo beneficiario delle risorse previste a carico dell’intero Fondo Next Generation EU. Il 37% delle risorse assegnate all’Italia devono essere attribuite al green, facendo ricorso ad un concetto più trasversale di sostenibilità. Le principali azioni del Recovery Fund Ue hanno come comune denominatore l’ambiente: una rivoluzione verde che dovrà impattare soprattutto sui concetti di innovazione e di massimo sfruttamento delle energie rinnovabili.

Proprio in queste ore il G20 in corso a Roma ha trovato l’accordo sul clima: è stato fissato a 1,5 gradi il tetto massimo per il riscaldamento globale e c’è l’impegno alle zero emissioni entro la metà di questo secolo. Il premier Mario Draghi commenta: “Vinciamo o falliamo insieme. Come G20 abbiamo la responsabilità di mostrare la nostra leadership e guidare il mondo verso un futuro più sostenibile”. 

Per mantenere fede a questo accordo, occorre che l’auspicata rivoluzione green si basi, a mio parere, su una salda transizione socio-culturale ecologista: la cultura a 360 gradi gioca un ruolo fondamentale per la ripresa dopo la pandemia e per favorire altresì la transizione ambientale.

La letteratura si colora di “verde”

Da sempre la letteratura ha svolto una funzione profetica. La narrazione di un futuro possibile, la creazione di un immaginario, di volta in volta apocalittico, fiabesco, allegorico è parte stessa della tradizione narrativa del mondo. La riflessione sul tempo e sul domani ha prodotto grandi capolavori, e solo alla metà del Novecento, per circoscrivere un macro-genere, si è coniato il termine fantascienza o science fiction.

Ma che cos’è la Climate fiction o più brevemente Cli-fi?  Si tratta di un genere a metà tra la fantascienza e la distopia, per la tendenza a rappresentare scenari tragici e post-apocalittici; ma, allo stesso tempo, si configura come una sorta di realismo ipotetico, per le finalità politiche e civili con cui racconta una situazione davanti alla quale non possiamo più chiudere gli occhi. Abbiamo un’ostinata riluttanza ad accettare che le catastrofi ambientali possano davvero accadere. Trascuriamo o ignoriamo le previsioni scientifiche. Ma qualche eco-scenario, confermato dalle reazioni di una natura già ai limiti della sostenibilità, si è fatto strada nel nostro immaginario attraverso la narrativa ambientale, o meglio la fantaecologia come sottogenere della fantascienza.

Tuttavia, la climate fiction non costituisce in nessun modo una novità radicale. Storie che narrano dell’interferenza degli esseri umani sul clima si ritrovano già nelle storie creazioniste dei nativi americani, nella mitologia greca e nella poesia della Rinascenza inglese. Ciò che distingue la climate fiction è l’enfasi sull’essere umano in quanto causa del cambiamento climatico e sugli effetti catastrofici che questo genera.

Tra le pubblicazioni che meglio rappresentano il genere letterario vi è Solar (2010) di Ian McEwan che racconta la storia di un premio Nobel che cerca di ricavare energia rinnovabile replicando il processo di fotosintesi delle piante. L’altro grande nome del genere è Margaret Atwood autrice di una trilogia in cui un pianeta sempre più sopraffatto dai cambiamenti climatici e in cui viene fatto largo uso dell’ingegneria genetica viene colpito da un’epidemia. L’ultimo degli uomini (Oryx and Crake) del 2003, L’anno del Diluvio (The Year of the Flood) del 2009 e L’altro inizio (MadAddam) del 2013, sono i tre titoli della trilogia distopica.

In realtà, alcuni scrittori hanno trattato tematiche simili ancora prima che si parlasse di cambiamenti climatici. È il caso di Jules Verne in Il mondo sottosopra (1889) in cui i protagonisti lottano per riportare l’asse terrestre nella sua posizione iniziale. J. G. Ballard pubblica Il vento dal nulla (1961) che narra dell’arrivo di un uragano capace di distruggere tutti gli edifici e le opere umane. In Il mondo sommerso (1962) il riscaldamento globale provoca lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento dei mari che sommergono le maggiori città europee e nord-americane. Terra bruciata (1964) descrive un mondo in cui l’acqua scarseggia a causa dell’inquinamento che ha bloccato il processo di evaporazione delle acque dei mari.

Il mondo anglosassone fa già le prime stime: il genere cli-fi è aumentato di quattro volte rispetto a sei anni fa, secondo il sito Eco-fiction.com. Non solo: #climate fiction è un hastag utilizzatissimo su Twitter; il genere conta svariate pagine su Facebook; è parte, a pieno titolo, delle liste dei gruppi di lettura. Sul motore di ricerca di Amazon dà 4000 risultati (l’anno scorso erano la metà). Uno stuolo di romanzi ai quali ancorare un rinnovato dibattito ambientalista. Con un’efficacia di gran lunga superiore.

© Pixabay

…anche il cinema si colora “verde”   

Ma più della letteratura, lo scenario di un futuro devastato dai cambiamenti climatici è l’arena preferita di molte narrazioni cinematografiche e seriali. Basti pensare al mondo sferzato dalle tempeste di polvere della prima parte di Interstellar, a Wall-E, o perfino a certi episodi di Game of Thrones. Per non parlare dell’ultimo episodio della terza stagione di Black Mirror, Odio universale, in cui le api, sentinelle della biodiversità, si sono estinte e sono state sostituite da copie-robot in grado di replicarne ogni azione. O ancora Okja, film scritto e diretto da Bong Joon-ho, prodotto da Netflix e presentato al Festival di Cannes 2017, nel quale una bambina coreana si affeziona a un gigantesco maiale creato in laboratorio per arginare l’inquinamento ambientale causato dall’industria della carne.

Leonardo DiCaprio, attivamente impegnato nei temi ecologisti, ha annunciato che produrrà la trasposizione cinematografica del romanzo The Sandcastle Empire di Kayla Olson, ambientato nel 2049, in una Terra sconvolta da inondazioni e sovrappopolazione. E il filone è da tempo esplorato: da film come Waterworld, uscito addirittura ventisei anni fa, con Kevin Costner mutante in cerca di una striscia di terra in un mondo sommerso dalle acque; da Mad Max: Fury Road, recente rivisitazione di una saga del 1979 con Mel Gibson per protagonista, che ripropone lo stesso futuro distopico dove l’acqua e la benzina sono risorse esaurite.

C’è in questi film un’evidente spettacolarizzazione e una semplificazione dei temi trattati. Tuttavia, li ritengo ugualmente utili per sollevarli e coinvolgere le persone in misura ben più massiccia di quanto possiamo fare noi di SmartGreen Post, i nostri colleghi e le associazioni ambientaliste. L’ambientalismo è stato troppo nei salotti e poco nelle piazze. Con questi libri, con questi film, si arriva alle persone in modo più diretto e suggestivo rispetto alla nostra comunicazione, che resta tradizionale e – ahimè – settoriale, di nicchia. Credo molto nella sinergia con queste formule narrative.

© Felipe Bustillo on Unsplash

…anche la musica si colora “verde”   

Molti artisti italiani e stranieri si stanno impegnando per rendere la propria produzione più sostenibile e provano a sensibilizzare i fan attraverso la musica. Anche la musica, infatti, ha un impatto ambientale e, cosa più importante, può contagiare le persone tramite la potenza delle note oltre che delle parole. Sono tanti i cantanti che stanno cercando di fare qualcosa in campo ecologico: scrivere canzoni sulla natura e sull’ambiente non è l’unica opzione.

L’iniziativa che ha fatto più scalpore proviene dall’estero. Nel 2019 i Coldplay hanno annunciato che non faranno il tour del loro nuovo albumEveryday Lifefinché non troveranno il modo di ridurre drasticamente l’impatto ambientale dei concerti.  Basti pensare agli aerei, agli impianti di alimentazione negli stadi, alla plastica monouso utilizzata sia dalle band che dai milioni di spettatori presenti ai concerti.  

Il tema della plastica nei concerti è stato affrontato anche da Jovanotti, il quale, tra l’altro, ha sempre parlato del bisogno di riconnettersi con la natura, fin dai suoi primi album. Non a caso ha girato un video-documentario in bici fra Cile e Argentina che si chiama Non voglio cambiare pianeta.


Il vinile dell’ultimo album della cantante Elisa Secret Diaries ha un imballaggio totalmente plastic-free. Inoltre, Elisa sta portando avanti il suo progetto per uno studio di registrazione totalmente eco-friendly, costruito con i criteri della bioedilizia.

L’esempio più recente di canzone impegnata per l’ambiente è Picnic all’inferno di Piero Pelù. In questo singolo il cantante “duetta” con Greta Thunberg, la “piccola guerriera scesa dalla luna”: le sue parole sono intervallate da alcune parti del discorso che Greta ha tenuto a Katowice nel 2018, fra cui l’ormai celebre slogan: You are never too small to make a difference.

In Despite Repeated Warnings (2018) di Paul McCartney, il capitano non ascolta quel che gli viene detto e ignora i ripetuti avvertimenti dei pericoli incombenti: è la dedica amara di McCartney a Donald Trump e in generale ai negazionisti del cambiamento climatico, tra i quali Scott Pruitt, che era stato messo a capo dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente pur sostenendo la tesi dell’irrilevanza delle emissioni di CO2 nell’atmosfera in rapporto ai cambiamenti climatici.

Tramite la propria voce, i cantanti possiedono la magia di cambiare le persone, modificando umore, sentimenti e abitudini. Sarebbe quindi auspicabile che riempissero i loro testi di riferimenti naturali e usassero il proprio talento per parlare della crisi climatica. 

© Pixabay

…anche l’arte si colora di “verde”

L’arte rende i dati più accessibili ai non scienziati e trasmette in modo diretto lo status quo della crisi climatica anche a coloro per cui numeri e parole non sono abbastanza. Alcuni esperti parlano addirittura di arte del cambiamento climatico, una forma di arte ispirata da un collettivismo per il bene pubblico e dallo scopo di rendere la crisi climatica concepibile, comprensibile e vicina.

Un celebre esempio d’incontro fra arte e natura è quello rappresentato dalla Biosfera di Renzo Piano, realizzata nel 2001 e collocata nel Porto Antico di Genova. La struttura in vetro e acciaio – per 1.000 mq di superficie – è un giardino tropicale urbano, aperto al pubblico, dove si aggirano in libertà uccelli e rettili.

Nel 2015, in occasione della COP di Parigi, la stessa UNFCC (United Nations Framework Convention on Climate) finanziò l’iniziativa Artists 4 Climate Paris 2015, nella quale artisti da tutto il mondo diedero il proprio contributo per ridefinire la nostra relazione con il Pianeta. Fu in questa occasione che Olafur Eliasson realizzò l’opera Ice Watch, che consisteva in 12 pezzi di ghiaccio glaciale estratti dal fiordo di Nuuk in Groenlandia, disposti in cerchio nella piazza del Panthéon: un inquietante monumento morente!

Sulla stessa lunghezza d’onda, Deanna Witman ha raccolto per oltre 15 anni immagini satellitari di paesaggi ghiacciati per testimoniare il mutamento del clima, stampandole su carta salata in modo che anche l’opera stessa scomparisse se esposta alla luce solare (Melt). 

C’è chi racconta del cambiamento climatico come causa dell’estinzione di massa dipingendo un rinoceronte ad acquerello con all’interno la rappresentazione di specie in via di estinzione o estinte, come Laura Ball (Growing Pains, 2010).

© Steve Johnson o Pexels

Concludendo, l’auspicio è che la letteratura, il cinema, la musica, le arti figurative e la cultura nel senso più lato del termine contribuiscano sinergicamente alla formazione di una coscienza collettiva “verde” raggiungendo – attraverso le parole, le immagini, le note e i colori – l’emisfero emozionale del cervello umano.

A un certo punto non fu più la biologia a dominare il destino dell’uomo, ma il prodotto del suo cervello: la cultura. (James Clerk Maxwell)

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