La matematica della fertilità, la vita fuori dal grembo materno

La difficoltà a procreare e le procedure che aiutano a superarla sono ancora ritenute un tabù. Spetta a chi l’ha vissuta raccontare, cercando di cambiare la mentalità e il pregiudizio di chi ritiene la maternità quasi scontata, non considerando che le donne spesso si trovano a dover posticipare la scelta di avere un figlio per motivazioni legate soprattutto all’ottenimento di uno status professionale adeguato, superando la cosiddetta “finestra fertile”. L’autrice del libro “Diversamente fertile. Il dono di ‘sentire la vita’ fuori dalla pancia” è una di quelle donne che, dopo un lungo e tortuoso cammino nella selva oscura della PMA, è riuscita a coronare il suo sogno di maternità, grazie anche a uno stile di vita sano e una alimentazione appropriata, che in qualità di biologa, nutrizionista e ricercatrice ha tenuto sempre ben presente nella sua coraggiosa ricerca della cicogna, raccontando, in una coinvolgente autobiografia, che essere donne diversamente fertili non significa essere sterili, aride e brulle come la terra incendiata. Diversamente fertili significa avere comunque delle chance.

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© Gustavo Fring on Pexels

Un test di gravidanza negativo è l’inizio della fine. È un verdetto senza appello in una mattina d’estate. Le sfumature non esistono, soprattutto quando non è il primo, soprattutto quando è lo stesso identico risultato nonostante sia cambiato molto nelle fasi che hanno preceduto quel “non incinta”. È nero e per un attimo tutto si fa nero. I tre minuti di attesa del responso sembrano interminabili. Quella mattina ho aperto gli occhi e in un attimo ho realizzato che urinare al risveglio, azione quotidiana e quasi scontata, avrebbe avuto un carico e un risvolto di gran lunga diverso dall’ordinario. Come tutte le mattine, avevo attuato l’invasione della metà del letto di Francesco per il consueto abbraccio del buongiorno, ma, limitando di molto il tempo dedicato a quel momento, gli ho detto: «Andiamo, vescica chiama. Vediamo se qualcuno c’è o non c’è». E lui, sollevando il lenzuolo: «Andiamo, amore» e, in un attimo, era lì a scartare il dispositivo.

Mentre il sensore lavorava per dare una risposta affermativa o negativa, c’era una coppia che provava a distrarsi preparandosi un caffè e apparecchiando per la colazione, un momento tutto nostro e l’unico vissuto senza corse con la condivisione della pianificazione della giornata di ciascuno di noi. Lo stomaco era chiuso, ma provavamo entrambi a comportarci in maniera naturale e consueta. I tre minuti erano trascorsi e, tornando in bagno, si presentava ai nostri occhi una coppia che aveva appena realizzato la fine del sogno della loro genitorialità e quella coppia eravamo proprio noi. Sempre in quel bagno c’era una donna che aveva realizzato che quell’embrioncino aveva scelto di andare via. Quella donna ero io. Il mio embrione aveva scelto di non stare con me, era andato via, in silenzio, non sapevo quando e non sapevo perché.

La mia mente scientifica sapeva che, pur avendo lavorato su tutti i fronti possibili, pur essendoci affidati a persone e professionisti meravigliosi, ci sono i gap o i bias del “non noto”, dell’incontrollabile. Non si può modulare tutto con la medicina. Dal transfer in poi c’è un gap di conoscenze, c’è la medicalizzazione, ma non c’è monitoraggio, c’è solo l’attesa, un’attesa che, quando smettere di essere tale, può mettere nella condizione di cedere alla resa o di indirizzare verso una nuova attesa. La mia mente non scientifica, quella
che ha sede nella pancia (vuota) proiettava davanti ai miei occhi la sua carrellata di ombre: dubbi sul non aver rallentato il ritmo, dubbi persino sulla mia inadeguatezza nel ruolo di madre, dubbi sul fatto che mi sono decisa troppo tardi e ho pensato troppo ad altro, dubbi sul fatto che il mio embrione avesse fatto la scelta giusta e che mi stesse presentando il conto dei miei errori di valutazione e di scelte di vita pregresse.

La razionalità stava intanto facendo il suo lavoro per cercare di schiarire il nero aggiungendo qualche goccino di bianco ed eccomi, preparata all’eventualità di quel risultato, iniziare a ripetere a me stessa: «Non cercare il perché di quanto si sta materializzando sotto i tuoi occhi e nel tuo cuore, mentre si sta dematerializzando dentro di te l’idea che tu possa entrare nel club delle gravide prima e delle madri poi».
Nel frattempo, infatti, c’era il “qui e ora”, c’era mio marito e, dopo il responso, mi trovavo tra le sue braccia ad ascoltare parole cariche di significato, sussurrate col dolore nel cuore: «Per me ci sei tu e tu sei il mio tutto». È reciproco ed è bellissimo: non è scontato vivere un percorso di fecondazione assistita lungo e impattante senza deviazioni dall’equilibrio all’interno della coppia. Eravamo immersi in una situazione che destabilizza, ma riuscivamo a stabilizzare il noi. Merito dell’amore certamente, merito dello stesso amore che si desidera completare, come coppia, affidandosi a quell’embrioncino.

Ma quell’embrioncino era andato via, e ancora, non si sa quando e non si sa perché. L’unica certezza è che non c’era, il dispositivo tuonava “non incinta”. A quella mattina, quella in cui la prima pipì della giornata ha il potenziale di cambiare molto più della giornata di una coppia, ci si arriva con un carico di emozioni e di farmaci in corpo.
Fino al test di gravidanza si è in attesa della dolce attesa, ma l’attesa dell’eventuale dolce attesa era tutt’altro che dolce. Quell’embrione era stato trasferito dentro di me, doveva attecchire, scavare, “nutrirsi di me”, impiantarsi. L’interfaccia materno-fetale ha dell’incredibile dal punto di vista biologico: quanti meccanismi devono verificarsi, quante molecole in azione, quante cellule, quanti segnali, quanta energia necessaria. Ed è come se quell’energia provassi a inviarla con tutta la mia positività. Mi chiedevo quanto il mio ambiente fosse accogliente e, mentre i giorni scorrevano tra il mio amato lavoro e la mia piacevole quotidianità, la sera a letto mi scoprivo con una mano sul ventre a chiedermi se quell’embrione fosse ancora lì e quanto potessero essere dura la vita là, a chiedergli di resistere anche se è dura, perché la vita è dura ma è bellissima.

Mi sentivo quasi la Fallaci che non scrive ad un bambino mai nato, ma che si rivolge a un embrione che scoprirà presto essere un embrione mai impiantato. Test negativo, confermato in qualche ora dal dosaggio dell’ormone beta-HCG. Zero, il nulla. I numeri tornano e quello zero conferma che nel mio corpo c’erano le mie cellule e non c’era traccia di quell’embrione che ha metà del mio patrimonio genetico e metà del
patrimonio genetico di mio marito. Eppure quello zero responsabile di uno stato immutato, in realtà di cambiamenti dentro di me ne avrebbe portati molti più di quanto potessi pensare mentre guardavo quel numero che equivale al nulla. Lo zero è anche il numero che precede l’uno, l’incipit.

© Pixabay

La “nuova me”, che già si stava costruendo, si sarebbe definita ogni giorno dopo l’ingresso ormai più che conclamato nel mondo e nel mood della “diversamente fertile”, a causa proprio di quello zero. Nemmeno questo si comprende subito, così come non si sa quando l’embrione decide di andare via. Non è neanche chiaro subito che, se pur di passaggio simil-meteora, ha lasciato qualcosa. Quell’embrione mai impiantato è stato clemente con me: mi ha lasciato il dono di saper dare un senso a tutto, di elaborare prima, e di accettare poi, l’insuccesso di un percorso col sorriso sulla bocca, mitigando il dolore nel cuore. Ero consapevole che la vita non mi aveva dato nulla gratuitamente, sudare per le mie piccole conquiste era una costante e mi andava bene così perché sono certa che sento davvero mio ciò che ho costruito proprio da zero, con la progressione dei numeri, ai quali ho sempre fornito importanti dosi di booster per arrivare prima possibile ai miei piccoli traguardi.

Il paradigma “obiettivo-impegno-fatica-perseveranza-risultato” ampiamente testato e applicato, se si tratta della mia capacità riproduttiva, non funzionava, in quanto, dei cinque elementi mancava inesorabilmente l’ultimo, che non era solo il finale in termini temporali, ma rappresentava il finale in termini sostanziali. L’obiettivo che non si trasforma in risultato rimane obiettivo. Impegno e fatica si rivelano vani di fronte al test di gravidanza negativo, all’ormone dai livelli nulli e all’embrione che silenziosamente è andato via. E quella mattina, c’eravamo io e Francesco, non solo con il carico dei numeri, ma noi stessi numeri, numeri primi e non composti, divisibili solo per l’altro (l’uno) e per noi stessi. Numeri primi gemelli, di quelli che differiscono tra loro di due, separati da un numero pari. Separati dal nostro sogno, più vicini che mai. C’eravamo io e Francesco senza l’embrioncino, con una valigia pronta, preparata la sera prima, per partire per la nostra vacanza estiva, prenotata mesi prima.

«Qualsiasi cosa succeda domani, io e te siamo la forza l’una dell’altra e affronteremo tutto, rigorosamente mano nella mano» le mie parole mentre stavamo trasferendo gli abiti e il necessaire da portare con noi dal letto ai bagagli. Inutile specificare che in quella valigia ci avevamo messo anche tanta speranza. Non era servita e, alla luce del non risultato, all’indomani l’avevamo eliminata dalla valigia e sostituita con la
promessa e con la volontà di concederci del tempo per noi in relax, un momento dell’anno tanto atteso, di far cullare il dolore che stavamo vivendo dalle onde del mare che ci aspettava e di far illuminare il buio che era sceso dal sole di Sicilia. Un nuovo micro obiettivo di fronte a un macro non risultato.

Tratto da “Diversamente fertile. Il dono di ‘sentire la vita’ fuori dalla pancia”, di Maria Carmela Padula, Sizaa Editore, 2024, ISBN: 978-88-947954-1-7.

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