Il paradosso delle auto elettriche

In ottica di transizione energetica, puntare la comunicazione politica e le scelte energetiche sull’utilizzo delle auto elettriche è un elemento positivo, ma solo se considerato come l’inizio di un percorso e di scelte ben più difficili.

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Auto elettriche: una buzzword

Una delle attuali mode in tema di transizione energetica, una delle buzzword se vogliamo dirla così, è quella delle auto elettriche. Potrebbe essere un buon inizio, o solo un modo per nascondersi dietro ad un dito, lavarsi la coscienza, e magari dire di aver fatto tutto il possibile per evitare il disastro climatico verso cui stiamo andando. Per due ordini di motivi.

Il primo è legato ad una semplice constatazione numerica: se si vuole parlare di un piano per fronteggiare il cambiamento climatico, bisogna tenere conto di tutte le attività umane che provocano emissioni di gas serra: secondo le ultime stime (dati IPCC: https://www.epa.gov/ghgemissions/global-greenhouse-gas-emissions-data) concentrarsi sulle automobili significa, nel migliore dei casi, agire su circa l’8% delle emissioni di gas serra a livello globale. Poco, molto poco. Ai primi posti, anche se decisamente contro la nostra percezione, ci sono l’agricoltura, l’allevamento e la produzione di energia elettrica a fini industriali.

Il secondo motivo è legato al non affrontare la scelta delle auto elettriche con una strategia integrata e di filiera: è vero che queste auto si alimentano di energia elettrica, ma questa energia deriva ancora oggi per la maggior parte da centrali di produzione basate (ancora) su carbone. Tanto per essere chiari: la centrale elettrica di Drax, la più grande del Regno Unito e tra le più inquinanti a livello europeo, utilizza circa 0,3 kg di carbone per produrre 1kWh, cioè l’energia elettrica che viene assorbita in mezz’ora da un phon, per capirci. Le batterie più moderne per una carica completa di un’auto elettrica richiedono circa 140 kWh di energia elettrica, cioè l’equivalente di 43 kg di carbone per coprire una distanza di circa 400 chilometri. E le auto tradizionali? Mediamente una macchina a benzina, per coprire la stessa distanza, richiede circa 20 kg di benzina per coprire la stessa distanza.

Per farla breve: se si considera l’intera filiera, una vettura elettrica rilascia il doppio della quantità di CO2 rispetto ad una vettura a benzina.

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Il costo sociale di questa scelta

Quindi non ha senso fare le auto elettriche e investire in tale direzione? Un senso ce l’ha eccome, ma non affrontare il discorso nella sua interezza rischia di fare più danni di quanti cerchi di risolverne. Anche perché c’è un problema sociale importante di questa “moda”, un problema sul quale vorrei soffermarmi: i prezzi elevati che ad oggi hanno le vetture elettriche rischiano di far diventare l’automobile un lusso della sola classe benestante.

Vado sul concreto: per spingere verso questa svolta green della mobilità, sono state introdotte dai vari governi, a livello internazionale, delle penalità a carico dei produttori di automobili: se le auto che produci superano gli standard di inquinamento tollerati, paghi una sanzione. Invece, se sei un produttore che con le sue automobili impatta di meno sull’ambiente, allora guadagni dei cosiddetti crediti regolatori. La cosa simpatica, tutta legale, è che tra case automobilistiche questi crediti regolatori possono essere acquistati. Tesla ha incassato, solo nel 2020, 1,58 miliardi di dollari in questo modo, vendendo ad altre case automobilistiche i suoi crediti verdi. FCA, oggi Stellantis, ad esempio ha pagato – solo in Europa e solo nel 2020 – 300 milioni di euro per l’acquisto di tali certificati, e la maggior parte di questi soldi è finita proprio a Tesla.

E questo cosa implica? Che se da un lato una Tesla da 60 mila euro se la può permettere una persona decisamente benestante, la quale probabilmente ha anche beneficiato di diverse migliaia di euro di incentivi pubblici per acquistare quel tipo di automobile, dall’altro si sta verificando uno scarico dei costi di molte case automobilistiche sulle autovetture non-elettriche, destinate ad una fetta più ampia di popolazione che sta vedendo levitare in modo sproporzionato il costo di acquisto di una semplice utilitaria. Una redistribuzione di reddito che definire perversa è poco e che, oltretutto, non è giustificata dall’esiguità del miglioramento climatico ottenuto.

© Craig Adderley on Pexels

E allora?

Non tutte le soluzioni sono uguali: intervenire sulla transizione energetica è una esigenza molto sentita, ma bisogna “far di conto” e scegliere gli interventi più efficaci, non si può viaggiare per slogan o per assecondare alcuni trend di corto respiro. Buona parte del lavoro sul cambiamento climatico, ad oggi, si concentra su metodi relativamente semplici per ridurre le emissioni, come usare automobili elettriche e ottenere più energia dal solare e dall’eolico. Questo approccio è ragionevole, perché far vedere dei progressi e dimostrare il successo iniziale di un progetto aiuta a coinvolgere un maggior numero di persone. Ed è importante, perché siamo ancora lontani dall’impiegare tali metodi relativamente semplici sulla scala di cui abbiamo bisogno e così ci sono ampie opportunità di compiere subito grandi progressi. Non possiamo però limitarci a queste contromisure a portata di mano: dobbiamo concentrarci anche sulle soluzioni più complicate come lo stoccaggio dell’energia elettrica, carburanti, cemento, acciaio, fertilizzanti verdi e così via. Questo richiederà un approccio diverso alle decisioni politiche. Oltre a impiegare gli strumenti di cui già disponiamo, dovremo investire maggiormente nella ricerca e nello sviluppo delle tecnologie meno immediate e inquadrare tale dinamica considerando la tecnologia, la politica e, non ultimo, il costo sociale che tali scelte comporteranno.

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