Il paesaggio interiore risponde alla qualità e alla complessità di un paesaggio esteriore; la forma della mente è plasmata dalla collocazione geografica dell’individuo tanto quanto lo è dai geni.
– Barry Lopez –
Dai luoghi possiamo lasciarci penetrare, divenirne vulnerabili…
Dai luoghi possiamo lasciarci penetrare, divenirne vulnerabili…Atlante Appennino è un’opera ibrida, dove confluiscono narrazione, saggio, immagini e biografia, in una mappatura precaria e abbozzata di un territorio appenninico, esercitata attraverso l’utilizzo dell’ecobiografia, una pratica che Elisa Veronesi riprende dal filosofo francese Jean-Philippe Pierron.
L’Appennino attraversa queste scritture eterogenee per farsi palinsesto mobile e alterità necessaria a ritrovarsi. Attraverso la mediazione dell’alterità ecologica di luoghi, piante e animali riprendiamo la misura di un vivere che ci è sfuggito di mano e di un tempo che, frettolosi, abbiamo appianato a eterno presente. In ascolto, tra osservazione e rimemorazione, l’ecobiografia scrive (graphein) e narra l’interazione tra storie di vita (bios) e ambiente (oikos), mostrando i legami inscindibili tra noi stessi e il mondo.
L’ecobiografia è un’immersione nella multisensorialità infantile, la quale è indissolubilmente legata alla terra e ai luoghi che ci hanno visto nascere. È un nuovo “conosci te stesso”, dove quel “te stesso” non si limita al sé, ma si allarga a dismisura tra i viventi, dimostrandone l’interdipendenza.
L’ecobiografia scaturisce dall’interazione del Sé con l’ambiente esterno, con la Natura, e i suoi molteplici scambi rappresentano una sorta di ecosistema del Sé. È impossibile dire dove finisce il Sé e inizia la Natura, o dove finisce la Natura e inizia il Sé: l’ego e l’eco sono inestricabilmente intrecciati.
Un mondo è finito. Secondo alcuni, un’era geologica. Le trasformazioni dettate dalla crisi climatica mutano il pianeta e i viventi, rendendo manifesti i legami che intercorrono tra essi. Indagare questi nuovi rapporti ci porta a ridefinire l’umano e ad allargare la portata delle relazioni che lo caratterizzano. Cartografare l’Appennino attraverso scritture composite e narrazioni, frammenti biografici e pensiero filosofico muove dalla necessità di oltrepassare un approccio antropocentrico, per tracciare nuove mappe e analisi poetiche dello spazio. Rovistando nelle torbiere della storia profonda di questo luogo ancora poco esplorato, tanto ingombrante quanto sfuggente, ci si avventura in esercizi di variazione dell’immaginario, per creare nuove identità narrative in movimento.
L’Appennino è un phasma (fantasma) nel suo aderire perfettamente alla superficie, refrattario a oggettificarsi in qualcosa che si riesca veramente a definire, quieto nel rimanere sempre inafferrabile. Al massimo un brillio nella rifrangenza della luce, che puoi scorgere lungo una strada che porta a un passo, o in un bosco, tra gli abeti, sul limitare della conca rugosa di un monte, e nelle storie che possiamo raccontare, nelle narrazioni possibili che diventano strumenti per pratiche immaginative comuni.